Russia e Ucraina, Israele e Hamas: il significato della guerra

La guerra, fenomeno tanto antico quanto l’umanità, e porta con sé un carico di distruzione, dolore e perdita, che trascende le generazioni. Sfuggendo alla semplicistica dicotomia di “buoni” contro “cattivi”, la guerra emerge piuttosto come una tragica rappresentazione del conflitto umano, dove ogni parte è convinta della legittimità delle proprie ragioni, ma dove, in ultima analisi, non esistono vincitori. Su questo punto ho ragionato ascoltando le parole del professor Roberto Russo, docente di diritto costituzionale e direttore generale della Link University, a Roma, due giorni fa. Parlando dell’articolo 11 della Costituzione, scelto come tema del prossimo “Concorso nazionale di idee delle Vittime del Dovere” per gli studenti di tutta Italia, che abbiamo presentato alla Camera dei Deputati. Russo ha spiegato chiaramente come in guerra, così come durante una discussione, non esista quasi mai “la ragione”, ma le ragioni proprie di ciascuna parte.

Un concetto apparentemente semplice, ma su cui ci soffermiamo sempre troppo poco, per scegliere invece di prendere le parti, spesso spinti dall’ideologia politica o da quanto i media ci influenzino, come accade dall’inizio del conflitto tra Russia e Ucraina e il dramma della Striscia di Gaza. Storicamente, le guerre sono state spesso dipinte attraverso un prisma manicheo, con una parte etichettata come giusta e l’altra come ingiusta. Tuttavia, una visione più profonda rivela una realtà complessa, dove le cause e gli obiettivi dei conflitti si intrecciano con il tessuto socio-politico, economico e culturale delle società coinvolte. Le ragioni addotte per giustificare la guerra possono variare da esigenze di difesa a motivazioni ideologiche, territoriali o di risorse, ma ciascuna parte spesso avverte una profonda convinzione nelle proprie motivazioni.

La vera essenza del conflitto

Quando il fumo dei campi di battaglia si dirada, ciò che rimane è una traccia indelebile di perdite umane, culturali ed economiche. Famiglie distrutte, generazioni future compromesse, infrastrutture devastate e economie a pezzi sono solo alcuni dei costi diretti del conflitto. Eppure, il costo più profondo può essere il danno irreversibile al tessuto sociale delle nazioni impegnate in guerra, con divisioni e traumi che perdurano ben oltre il cessate il fuoco.

La guerra, allora, si rivela come un fallimento collettivo nel trovare vie di dialogo e comprensione reciproca. È una dimostrazione di come, nell’accezione più estrema del conflitto, l’umanità possa trascurare le possibilità di coesistenza pacifica a favore della forza bruta. Il filosofo e scrittore Bertrand Russell una volta affermò che la guerra non determina chi ha ragione, ma solo chi resta. Questa affermazione sottolinea l’amara verità che, al termine di un conflitto, le vittorie proclamate sono spesso vuote di fronte all’immensità delle perdite subite da entrambe le parti.

Promuovere la pace e la risoluzione dei conflitti attraverso vie non violente diventa, quindi, un imperativo morale e pratico. Incoraggiare il dialogo, l’empatia e la comprensione tra nazioni e culture diverse è essenziale per la sopravvivenza stessa dell’umanità. Storici, analisti e architetti della pace riconoscono che è attraverso l’istruzione, il dialogo e la cooperazione internazionale che le società possono sperare di rompere il ciclo apparentemente infinito della guerra, lavorando insieme verso un futuro in cui i conflitti possano essere risolti in aule di tribunali internazionali e tavole rotonde, piuttosto che sui campi di battaglia.

Il dietro le quinte del conflitto

A questo punto però è necessario riflettere sulla maturità dell’umanità, nel poter compiere questo passo, che si traduce nella capacità di smettere di sfruttare credo religiosi come pretesto per aumentare le distanze, le differenze, e spingere l’uomo a imbracciare il fucile quale materializzazione del “giusto”. La religione, ancora oggi, è la bandiera dietro la quale si accendono i conflitti, che per chi siede nelle stanze di potere è in realtà spinto dal desiderio del potere stesso e dalla ricchezza. Significa arrivare a considerare l’umanità tutta come parte di un meccanismo virtuoso dove le risorse siano la moneta di scambio per ottenere conoscenza, esperienza, mentre ancora oggi vengono sfruttate da chi è “più forte”, di trasferirle da quelle aree del mondo che invece potrebbero e dovrebbero essere ricche a prescindere. 

Nel nostro Paese dibattiamo in maniera accesa sul concetto di democrazia, siamo sul piano (teorico) delle ideologie spacciate per idee, tacciando l’altro di essere sbagliato e quindi meritevole di insulti, di derisione, di essere silenziato. Questo è il terreno su cui combattiamo. Altrove si combatte sul serio, per un acro di terra in più che una tribù reputa suo perché qualcuno ne ha animato la sete di potere, magari perché si snoda lungo un giacimento minerario che interessa a quello Stato estero che ha promesso supporto alla battaglia in cambio di “sassolini”. Altrove c’è chi reputa il resto del mondo “infedele” e da annientare, perché qualcuno gli ha insegnato a leggere un testo sacro secondo la sua visione, generazione dopo generazione, dimenticandosi persino come tutto ciò sia iniziato, ma che oggi si traduce nella necessità di annientare il prossimo per mantenere la gestione di un corridoio energetico da rivendere al miglior offerente. Altrove, ma anche qui da noi e in Europa, c’è chi crede che esistano “uomini minori”, sacrificabili, o sfruttabili ignorandone provenienza, cultura, incapacità di vivere in una società completamente nuova perché senza strumenti, ma che poi in televisione si riempie la bocca di parole di solidarietà e desiderio di “protezione”, mentre alle sue spalle partono convogli pieni di bombe e mitragliatori.

La guerra non si può in definitiva spiegare, non si può capire, bisogna solo evitarla. 

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