La guerra tra religioni: hamas, Iran, Israele, Afganistan, il potere e le donne

“Le donne senza velo che scendono in strada saranno perseguite”. Così l’Iran ha annunciato al mondo intero di voler stringere ancora di più il cappio attorno alla libertà delle donne, una serie di misure più “severe”, rispetto a quelle adottate dalla Repubblica Islamica, inaccettabili se immaginate in occidente. La decisione è stata annunciata dal capo della polizia di Teheran, Abasali Mohammadian, dopo due anni di costanti proteste partite a seguito della morte di Mahsa Amini,  la giovanissima curdo-iraniana morta dopo essere stata arrestata per non aver indossato il velo, nel 2022.  Una decisione che va contro l’opinione della stragrande maggioranza degli iraniani, il cui oltre 80% è contrario all’obbligo dell’Hijab. L’operazione “luce”, come è stata denominata, prevederà seri provvedimenti e condanne per tutte coloro che verranno sorprese a capo scoperto, che non potranno lasciare il Paese, usare i social media, saranno multate e private dei servizi sociali, fino all’arresto. In Afghanistan  i Talebani hanno annunciato di voler tornare a lapidare le donne accusate di adulterio, anche in pubblico. Lo ha reso noto il  leader supremo, Hibatullah Akhundzada, in diretta televisiva, parlando della reintroduzione della fustigazione pubblica e della lapidazione per adulterio.

Cosa ha a che fare la condizione della donna con il potere? Andiamo per gradi. 

La condizione della donna nelle società islamiche estremiste

La condizione della donna nelle società islamiche è frequentemente soggetta a interpretazioni estremamente rigorose e letterali della Sharia, la legge islamica, che può portare a forti limitazioni dei diritti e delle libertà fondamentali delle donne. Uno dei principali aspetti di tale condizione è il notevole divario tra i generi in ambiti quali l’istruzione, l’impiego e la partecipazione alla vita pubblica. Le donne in queste comunità possono incontrare significative restrizioni nell’accesso all’istruzione e al mondo del lavoro, spesso confinate a ruoli tradizionalmente femminili con scarsa o nessuna possibilità di autonomia finanziaria o decisionale.
Le leggi che regolamentano il vestiario, la libertà di movimento e l’interazione con gli uomini non appartenenti alla stretta cerchia familiare possono essere estremamente severe, limitando pesantemente la libertà individuale e l’espressione personale delle donne. In alcuni casi, il mancato rispetto di queste norme, come abbiamo visto, può comportare sanzioni rigorose, a volte anche violente. Un altro aspetto critico è rappresentato dal sistema di tutela maschile, in base al quale una donna, per gran parte della sua vita, può trovarsi nella condizione di dipendenza legale da un tutore maschile, che può essere il padre, il fratello, il marito o un altro parente maschio. Questo sistema incide profondamente sulle capacità delle donne di prendere decisioni fondamentali riguardanti la propria vita, come il matrimonio, l’istruzione, il lavoro e persino la mobilità. È una questione complessa che richiede sensibilità culturale, dialogo interreligioso e un impegno costante per la difesa dei diritti umani e della dignità di tutte le persone, a prescindere dal genere. E’ comunque importante riconoscere che all’interno delle società islamiche esistono voci e movimenti che si oppongono alle interpretazioni estremiste della Sharia e che lavorano per promuovere i diritti e le libertà delle donne, spesso affrontando grandi sfide e rischi personali. Questi attivisti lottano per l’istruzione femminile, il diritto al lavoro, la parità di trattamento legale e una maggiore rappresentanza politica e sociale delle donne. L’opposizione alle pratiche più oppressive non proviene solo da femministe e attivisti per i diritti umani a livello internazionale, ma anche da intellettuali e studiosi di religione musulmani che cercano di reinterpretare i testi sacri in una luce che sostenga la parità di genere e i diritti delle donne.

Il rapporto tra potere politico, interessi internazionali e la sottomissione della donna

Il rapporto tra potere politico e la condizione di sottomissione delle donne nei paesi a maggioranza islamica è profondamente influenzato da contesti storici, sociali e, in molte circostanze, dalle interpretazioni della legge islamica. In diverse nazioni, il potere politico si intreccia strettamente con interpretazioni conservatrici o estremiste dell’Islam, che influenzano direttamente le leggi e le politiche pubbliche riguardanti le donne. Queste interpretazioni possono giustificare e mantenere pratiche quali il matrimonio precoce, la limitazione nell’accesso all’istruzione per le ragazze, e restrizioni severissime sulla libertà personale e professionale delle donne. Gli stati, utilizzando la religione come strumento di potere, possono cercare di legittimare tali pratiche, presentandole come componenti essenziali dell’identità culturale e religiosa, piuttosto che come questioni di diritti umani da affrontare.
In Afganistan, a cavallo degli anni ’20 con la monarchia di re Amanullah, furono approvate numerose riforme per l’emancipazione femminile e la modernizzazione del Paese. Negli anni trenta l’Afganistan ebbe la sua prima donna femminista, la regina Soraya. Nel 1964 le donne ottennero il diritto di voto e un anno dopo ben sei vennero elette per la prima volta in Parlamento. Sono di questo periodo le immagini che in rete si possono trovare, che ritraggono donne afgane in abiti occidentali, con tanto di minigonna. Un’apertura che non riguardava evidentemente solo l’abbigliamento. Nel 1977 Meena Keshwar Kamal fondò l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afgane (RAWA), nel 1980 Anahita Ratebzad divenne vice capo di Stato di Governo del Partito Popolare, e rimase in carica fino al 1985. Due anni dopo Keshwar fu uccisa, la prima grande avvisaglia del cambiamento del cambiamento in atto, seguita dalla chiusura del Consiglio delle Donne Afgane, fondato nel 1978, nel 1992. Il decennio ’79-’89 fu quello dell’occupazione sovietica del Paese, che rappresentò per le donne, nonostante il permanere della mentalità patriarcale, un momento di grande emancipazione, mentre politicamente si accese il conflitto tra Mujaheddin, supportati in varie forme e non ufficialmente da Stati Uniti, Regno Unito, Pakistan, Iran, Arabia Saudita e Cina, e la Repubblica Afgana supportata dall’Unione Sovietica. Con la vittoria dei mujaheddin e Al Qaeda, e tutti i diritti conquistati dalle donne furono cancellati, per poi arrivare al peggioramento totale con i Talebani (che combatterono al fianco dei mujaheddin). Dopo il collasso del Governo filo sovietico infatti, presero il potere con il miraggio di costituire un Emirato nel 1996. Restarono al potere fino al 2001, quando il Governo Bush scatenò un nuovo conflitto a seguito degli attentati dell’11 settembre. Il conflitto durerà così a lungo da diventare una notizia di coda nei telegiornali, fin quando il 29 febbraio 2020, con un accordo firmato in Qatar, gli Stati Uniti annunciarono l’abbandono del Paese, una ritirata che di fatto lo restituirà in pochissimo tempo ai Talebani. 
Anche in Iran le donne vissero epoche diverse a seconda di chi deteneva il potere. Nel 1926 lo Scià Pahlavi iniziò a modernizzare il Paese all’occidentale, di fatto permettendo alle donne maggiori libertà, come l’accesso all’università e il bandire l’obbligo del velo, una scelta adottata anche da suo figlio, che salì al potere nel 1942. Grazie alla “rivoluzione bianca”, nel 1963 le donne acquisiscono il diritto al voto e nel  1968 l’Iran vede nominare la prima donna ministro. Il cambiamento verrà bruscamente interrotto dal regime di Khomeini, nel 1979, il quale abrogò ogni cambiamento effettuato il giorno dopo il suo insediamento come capo della Repubblica Islamica. Velo imposto e negazione del diritto all’aborto, la repressione iniziò e peggiorò con l’avvento di Khatami, nel ’97. Questi introdusse la segregazione delle donne, le quali dovevano di fatto vivere e studiare totalmente separate dagli uomini. Con qualche sporadico (e di facciata) incarico politico alle donne, oggi l’Iran si dimostra uno dei Paesi maggiormente repressivi nei confronti dei diritti delle donne.
Ci vorrebbe un libro per ricostruire tutti i legami politico-economici che sottendono ogni fase di questi cambiamenti. Ciò che è evidente è che la repressione e la violenza nei confronti delle donne, sono un messaggio preciso per l’occidente: “mostrare i muscoli” sfruttando la religione e la prevaricazione femminile. 

Il conflitto tra ebrei e mussulmani, la radice del conflitto

Il conflitto tra ebrei e musulmani ha radici storiche profonde e si intreccia con complesse questioni politiche, territoriali e religiose. Comprendere pienamente la natura di tale conflitto richiede uno sguardo attento ai numerosi fattori che hanno contribuito a modellarne la storia. Le origini del conflitto possono essere fatte risalire a tempi antichi, ma è nel 20° secolo che le tensioni tra ebrei e musulmani hanno assunto una dimensione più marcata, in particolare con la creazione dello Stato di Israele nel 1948. La proclamazione di Israele, sostenuta dalle Nazioni Unite, ha portato a una serie di guerre tra il nuovo stato e i paesi arabi circostanti, lasciando profonde cicatrici e questioni irrisolte che continuano a influenzare i rapporti fino ai giorni nostri. Oggi assistiamo all’ennesimo conflitto, dove a farne le spese sono le popolazioni inermi. 
Il cuore del conflitto si trova spesso nella disputa per il controllo di terra ritenuta sacra sia dall’islam che dall’ebraismo, in particolare Gerusalemme. Questa città ospita luoghi di vitale importanza religiosa per entrambe le fedi, come il Monte del Tempio/Santuario Al-Aqsa. Questa sovrapposizione di sacralità intensifica il conflitto, rendendolo non solo una questione di rivendicazioni territoriali, ma anche di identità e fede. Un altro aspetto chiave del conflitto è legato alle condizioni di vita dei palestinesi nei territori occupati e al loro desiderio di autodeterminazione e sovranità, sostenuto dalla maggioranza dei paesi musulmani, contro le politiche di sicurezza e le rivendicazioni territoriali di Israele. La creazione di insediamenti, i checkpoint militari, il muro di separazione e le restrizioni sui movimenti sono tutti punti di frizione che alimentano frequentemente le tensioni.
Il conflitto israelo-palestinese, in particolare, è spesso presentato come un microcosmo del più ampio confronto tra ebrei e musulmani, anche se in realtà entrambe le comunità religiose presentano una grande varietà di posizioni interne, alcune delle quali cercano attivamente il dialogo e la coesistenza pacifica. In mezzo a episodi di violenza e tensione, ci sono numerosi sforzi da parte di gruppi e individui di entrambe le fedi per costruire ponti di comprensione e rispetto reciproco. Vi sono state numerose iniziative di dialogo interreligioso, progetti educativi congiunti e attività volte alla costruzione della pace cercano di affrontare pregiudizi e stereotipi, promuovendo una narrazione alternativa incentrata sulla convivenza e sul rispetto. Tuttavia, il successo di questi sforzi pacifici è spesso messo alla prova da estremisti su entrambi i fronti che rifiutano il compromesso, vedendo nel conflitto una lotta esistenziale senza spazio per la mediazione. Il conflitto, per chi “preme i bottoni”, è il mezzo per il potere e la supremazia sull’altro.