Due carabinieri uccisi in un incidente, alla guida qualcuno che non doveva guidare

Il turno che sta per finire, uno scambio di battute e il pensiero della telefonata a casa o del messaggio della buona notte da inviare alla fidanzata. Un attimo dopo il boato e il silenzio. Sono morti così il maresciallo Francesco Pastore, 25 anni, di Manfredonia, e l’appuntato scelto Francesco Ferraro, 27 anni, di Montesano Salentino, travolti da un suv guidato da una donna di 31 anni, oggi indagata per omicidio stradale,   risultata positiva all’alcoltest e alla cocaina (risultati del narcotest dovranno essere confermati da un controesame), l’altra notte sulla statale tra Eboli e Campagna, in provincia di Salerno. Ferito un terzo carabiniere, che ha riportato la frattura del bacino e altre lesioni, ma fortunatamente non rischia la vita. In ospedale anche la 31 enne, una 18 enne che era in auto con lei e un uomo di 75, che ha tamponato il suv subito dopo la tragedia.

L’autista del suv e i precedenti che richiederebbero interventi legislativi

Come poteva avere ancora la patente una persona con precedenti per droga, che non paga l’assicurazione e che corre (secondo la prima ricostruzione della dinamica), dopo aver assunto alcol e droga. Accade ogni giorno, non è affatto una novità, purtroppo. La “libertà di movimento” è uno dei diritti fondamentali garantiti dal nostro ordinamento, che però forse meriterebbe una riflessione. Ad oggi guidare un’auto è concesso a tutti, pregiudicati, indagati, condannati in attesa di esecuzione pena, e tra questi vi sono conclamati utilizzatori di stupefacenti, stalker, rapinatori etc ecc.

Forse sarebbe davvero il caso di rivedere le norme e pensare che questo sia un diritto insindacabile di coloro che rispettano la legge e il prossimo. Se un abituale consumatore di sostanza non guida, non rischia di uccidere nessuno. Se uno stalker è a piedi, certamente ha molte meno possibilità di tormentare la sua vittima.

Le forze dell’ordine, due pesi e due misure

Quando un appartenente alle forze dell’ordine sbaglia, si scatena la gogna mediatica. Quando è vittima di un reato, e ciò accade molto (ma molto) più spesso del contrario, si sprecano le frasi di circostanza e le cattiverie. “È il rischio del mestiere”, “uno di meno” e altre aberranti sproloqui.

Le forze dell’ordine rappresentano la colonna vertebrale della sicurezza pubblica, una professione che richiede dedizione, coraggio e un impegno incondizionato verso il benessere della comunità. Tuttavia, dietro le divise e i distintivi, si nasconde una realtà fatta di sfide e sacrifici spesso sottovalutati, se non completamente ignorati, dal grande pubblico.

Il problema del sottorganico nelle forze dell’ordine è una piaga che affligge numerosi corpi in tutto il mondo. Questa mancanza di personale non solo aumenta il carico di lavoro per gli agenti in servizio, ma compromette anche l’efficacia delle operazioni di sicurezza pubblica. Gli agenti sono costretti a lavorare turni più lunghi, con minor tempo per recuperare tra un servizio e l’altro, incrementando esponenzialmente i livelli di stress e le probabilità di errore.

In parallelo, la crescente assenza di educazione e rispetto per le regole mina le fondamenta della civiltà su cui si basa ogni società ordinata. Questa mancanza si traduce in aggressioni gratuite verso gli agenti, episodi non solo fisici, ma spesso verbalmente violenti, che lasciano cicatrici invisibili ma indelebili. Questi attacchi non solo mettono a rischio la sicurezza degli agenti stessi, ma erodono il tessuto della fiducia reciproca essenziale tra cittadini e forze dell’ordine.

Ironia della sorte, quando un agente commette un errore, spesso frutto della stessa pressione sotto cui opera quotidianamente, l’attenzione mediatica si intensifica, dimenticando la complessità e la pericolosità del loro lavoro. Ogni azione viene scrutata con una lente di ingrandimento, lasciando poco spazio all’errore umano, nonostante sia una realtà inevitabile in ogni professione.

Ancor più grave è l’indifferenza quasi totale quando un agente perde la vita in servizio. Questi eroi caduti, che hanno sacrificato tutto nel nome del dovere, meritano di essere ricordati e onorati. Eppure, la loro assenza passa spesso inosservata, o viene rapidamente dimenticata, una triste testimonianza di come la società tenda a dare per scontata la sicurezza e la pace, frutti del sacrificio quotidiano delle forze dell’ordine.

La società deve risvegliarsi e riconoscere l’importanza vitale che gli uomini e le donne in divisa hanno nella salvaguardia della nostra sicurezza e libertà. È fondamentale valorizzare il loro lavoro, supportarli nelle difficoltà e ricordarsi che, dietro ogni uniforme, c’è un essere umano che mette quotidianamente a rischio la propria vita per proteggere la nostra.

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