Tra le tante riflessioni su cui il tempo della pandemia ci dovrebbe costringere a soffermarci, oltre ovviamente a quelle che ciascuno di noi ha certamente fatto sui prioritari aspetti sanitari e di “medicina generale”, vi è quella relativa al rispetto delle regole.

Banalmente forse vale la pena ricordare come un Paese civile si fondi sull’accettazione da parte dei suoi cittadini del rispetto delle norme che regolano la convivenza civile. Fermarsi con il semaforo rosso, pagare il biglietto dell’autobus, indossare la cintura di sicurezza, non portare armi al seguito mentre si fa una passeggiata in centro.

“Coraggiosamente” deve affermarsi che questi mesi drammatici della comparsa del Coronavirus sembrano aver indebolito questo patto sociale tra cittadini e Stato, affievolito in qualcuno (più d’uno forse) l’intima convinzione di quanto sia importante rispettare la legge, naturale e scritta. O, forse, ha semplicemente acuito e messo in evidenza un innato e malcelato sentimento di fastidio di una parte di cittadini (che sarebbe interessante, un giorno, quantificare) verso il rispetto delle regole. Quasi che si sia verificata una situazione favorevole (sich !!) per poter da sfogo ai propri dormienti sentimenti di ribellione. Legittimi, per carità, ma con l’invalicabile limite – oltremodo superato da molti – del rispetto degli altri, della non violenza e della necessità di attenzione da rivolgere a chi presta un servizio in favore della collettività.

Figuriamoci se questo è lo spazio dove mettersi e discutere di posizioni no vax – si vax o di sostegno ai no green pass – si green pass… Indipendentemente dall’allergia più o meno forte che ciascuno manifesta per la periodica comparsa di gruppi “no qualcosa”, dovremmo domandarci se ciascuno di noi abbia rispettato nel proprio intimo, in questi mesi, il “patto sociale” non scritto stipulato con lo Stato, con la Nazione, con i diversi rappresentanti delle Istituzioni chiamati a far osservare le regole, quando abbiamo deciso di appartenere al civile mondo dei cittadini di un Paese evoluto come l’Italia.

Tutti i medici si sono spesi senza risparmio in piena coscienza per curare le migliaia di malati o qualcuno ha staccato il telefono “tanto ci penserà qualcun altro”?

Tutti i giornalisti hanno informato “liberamente” e limpidamente la vasta gamma degli utenti dell’informazione su quanto stava (e sta) accadendo, o qualcuno ha come al solito preferito ottenere un bell’incarico in questo o quell’ufficio stampa o una tessera sindacale per coprire le “magagne” dello sponsor politico di turno?

Tutti i commercialisti hanno prescritto dichiarazioni veritiere o qualcuno ha favorito l’indebita percezione di ristori vari applicando i soliti inganni e mezzucci all’italiana?

Tutti i lavoratori pubblici in smartworking hanno continuato a servire i cittadini o qualcuno si è dedicato a palestra e Netflix perché “tanto non mi controlla nessuno”?

Perché vedete, non basta più potersi autodefinire onesto per il solo fatto che indosso la cintura di sicurezza in auto, quando poi si saltella da un espediente ad un altro quando si fa il proprio mestiere. Tre giorni di mutua per andare in montagna, una casa intestata allo zio per prendere il reddito di cittadinanza, la dichiarazione dei redditi di 8 mila euro annui con la casa a Saint Tropez.

Credo che nessuno di noi possa dimenticare i camion dell’Esercito pieni di bare di Bergamo e gli ospedali drammaticamente stracolmi di ciascuna città italiana… Ritengo però che sia altrettanto doveroso rammentare le scene che contestualmente e quotidianamente, senza alcuna distinzione tra luoghi, soggetti coinvolti e (ahimè) categorie professionali, si sono (tristemente) viste. Gente che, fregandosene bellamente del lockdown, si aggirava per spiagge e lungomare, professionisti padri di famiglia che “simulavano” urgenze lavorative per andare a trovare gli amici, partite di calcetto abusive, feste e balli nei seminterrati, cene sfarzose nelle terrazze degli hotel. Autocertificazioni inventate e finte malattie di zie mai accudite prima.

Diciamoci la verità, anche per onorare l’azzeccatissimo nome di questa testata, neppure il triste primato di Paese con il maggior numero di decessi ha fermato l’italica propensione a farsi i “cazzi propri”, a pensare di poterla “fare franca”, a ritenere inutile comportarsi bene perché “tanto non gliene frega niente a nessuno”.

Non è sufficiente interpretare bene la parte del genitore severo davanti ai nostri figli se poi dopo, la sera, quando loro sono a letto, me ne vado al bar chiuso del mio amico ed entro dalla porta del retro a bere due birre. Inutile creare gruppi, comitati, finanche aprire tavoli tecnici e conferenze, più o meno riconosciuti ed autoproclamatisi portatori di etica e dispensatori di morale, se poi si “spacciano” informazioni fasulle per accaparrarsi la poltroncina disponibile di turno.

Finché in questo Paese, composto per la gran parte di gente onesta e perbene, purtroppo un po’ troppo silenziosa ed ombrosamente pavida, si continuerà a permettere a chiunque di poter fare quel che vuole, tanto “c’ho il cugino avvocato che fa ricorso”, rimarremo un paese così… Con la “p” minuscola, fatto di gente che preferisce il pusillanime e remunerativo (ma illegittimo) interesse personale a quello collettivo, molto meno interessante e poco arricchente perché fondato solamente su principi, patti e valori.

C’è da chiedersi che adulti saranno questi studenti che non solo hanno conosciuto la DAD, ma che hanno anche visto il loro Paese dover schierare Polizia e Carabinieri in assetti da antisommossa per far rispettare un lockdown sanitario. Non bastava la regola si deve stare a casa per non diffondere il virus? Cosa non era chiaro?

Che genitori saranno i nostri ragazzi, dopo essersi imbattuti di persona nei tanti vizi (e le poche virtù) dei propri familiari pronti a sgommare con l’auto di notte verso la seconda casa in montagna perché “tanto al massimo ci fanno la multa”?

Che educatori saranno se ora, tornati a scuola, si scontrano con la dura realtà di professori con Green pass contraffatti, frettolosamente compilati da medici compiacenti, con i milionari banchi con le rotelle accantonati nei magazzini, con l’imbarazzante visione di continui cortei di gente che prende a calci gli scudi dei poliziotti, costituzione nella mano destra e bastone nella mano sinistra?

C’è qualcuno che fa il proprio mestiere, compreso quello di cittadino, per bene ed onestamente in questo Paese? Certamente sì, molti, ma credo anche che questi “molti” debbano trovare – coraggiosamente – la forza di “denunciare” quello che non va, quello che non è giusto, quello che è illegale. Denunciare nel senso più ampio del termine, non solamente, cioè, nel suo significato giuridicamente inteso, ma anche solo semplicemente richiamando lo sbruffone che supera la coda in posta, l’automobilista che passa con il rosso, finanche il ragazzino che urina sul monumento. Smascherare il collega che se ne va in malattia grazie al medico amico, dire no all’elettricista che ti propone di pagare in nero e al commercialista che ti consiglia di intestare l’auto al cugino nullatenente.

Il rischio, altrimenti, è che la carta su cui abbiamo figurativamente firmato il nostro patto con lo Stato e con gli altri cittadini diventi “cartaccia”, buona solamente da mostrare quando “è un mio diritto” ma ben nascosta ed accartocciata quando “è un tuo dovere”.

Nessuno si senta escluso da questo compito, di categorie professionali sacre non ve ne è neppure l’ombra e di portatori di verità assoluta ne abbiamo le tasche piene.

Alias “Giulio Cesare”