Disabilità gravissime: maggiore inclusione per malati complessi e riconoscimento per i caregiver

Secondo la nuova definizione di disabilità gravissima, le persone che si trovano in questa condizione sono quelle beneficiarie dell’indennità di accompagnamento e per le quali sia verificata l’esistenza di almeno una delle condizioni contenute nell’allegato 1 del Decreto Interministeriale 26 settembre 2016 (coma, stato vegetativo, stato di minima coscienza, etc.). Obiettivo primario di questa nuova distinzione all’interno delle disabilità, era sostenere la permanenza al domicilio di queste persone, laddove possibile, garantendo risposte eque e omogenee, migliorare la qualità di vita promuovendo un percorso di presa in carico globale, centrato sulla persona e sui familiari.
“Ad oggi – dice Lucia, 53 anni, monzese e caregiver da 30 – c’è sempre più la necessità di valutare le disabilità in base all’assistenza che queste richiedono e questo tipo di valutazione deve essere fatto caso per caso. La definizione di disabilità gravissima rimanderebbe dunque al concetto di autosufficienza: da questo punto di vista sarebbe più corretto riferirsi a persone con bisogni complessi e valutare dunque, caso per caso, queste complessità che spaziano dal piano sanitario a quello assistenziale a quello educativo. Nel caso di mia figlia queste complessità richiedono assistenza continua che, se interrotta anche solo per un breve periodo, può portare a gravi complicanze o alla morte.”
Bisogna dunque rivedere i criteri per l’individuazione di queste patologie perché ci sono persone le cui patologie li rendono completamente dipendenti dall’assistenza di un’altra persona, spesso il genitore e come nel caso di Lucia, la mamma che per dedicarsi H24 a sua figlia ha rinunciato alla sua vita sociale, lavorativa e di coppia.
“Non ho mai 5 minuti per me, nemmeno per andare a fare la spesa da sola oppure prendere un caffè con una persona amica – continua Lucia – e non riesco mai a dedicarmi alla cura di me stessa, non solo dal punto di vista estetico, ma nemmeno dal punto di vista della salute. Questo mi porta anche a chiedermi chi si occuperà di mia figlia nel momento in cui io non dovessi stare bene e non potessi più occuparmi di lei H24. E come mai il mio ruolo non è riconosciuto a livello legislativo? È frustrante non poter lavorare e sapere inoltre che io per lo Stato non esisto: il mio lavoro è invisibile. Certo, io lo faccio per mia figlia: lei è tutto per me, ho sempre fatto tutto il possibile affinché la sua vita, con le mille difficoltà, possa essere considerata degna di essere vissuta. Il migliore riconoscimento che ho è vedere ogni giorno il suo sorriso, ma con quello non posso costruirle un futuro strutturandole un piano di assistenza personalizzato per quando si ritroverà senza di me.”
Secondo l’Istat1 i caregiver in Italia sono 8 milioni e mezzo, ovvero più del 17% della popolazione; solo 900mila lo fanno per mestiere. Tutti gli altri, parliamo di 7,3 milioni, sono uomini e donne che assistono un loro familiare – coniuge, convivente, genitore, figlio o figlia: ammalato, invalido o non autosufficiente. In un caso su 4 dedicano alla persona malata più di 20 ore a settimana. Spesso poi le persone da assistere sono più di una: vi sono famiglie con più di un figlio malato e si sommano anche i genitori anziani. I dati sono sottostimati ma ci danno un’idea dell’importanza del fenomeno.
La pandemia ha sicuramente contribuito a peggiorare la situazione di Lucia e di tutti i caregiver come lei, che assistono una persona che necessita di assistenza continua ma che fino a prima potevano ancora godere di qualche attimo di respiro uscendo di casa; nell’ultimo periodo, essendo esposte ad un maggior rischio di contrarre il Covid, si sono ritrovate a condividere lo stesso spazio a volte anche ristretto e questo, a chi non lo vive quotidianamente, forse rimane difficile capire quanto sia un carico pesante.
È stato sollecitato anche il Ministero della Salute, affinché questi criteri vengano rivisti e sono anni che genitori ed associazioni lottano per il riconoscimento del ruolo del caregiver: questo è in parte riconosciuto dal decreto 26 settembre 2016 ma c’è ancora tanto da lavorare e queste famiglie attendono da troppo tempo una risposta che tarda ad arrivare.
Perché non approfittare di tutte le potenzialità dimostrate dalle nostre strutture sanitarie in quest’ultimo periodo? Trarre il meglio anche dalle cose peggiori: questo potrebbe essere il momento di dare l’avvio a piccoli cambiamenti che potrebbero fare la differenza per persone come Lucia e molte altre.
La mia storia
Mia figlia, affetta da diabete adipsico centrale, diabete mellito di tipo 2 e portatrice di altre malattie rare rientra nelle persone affette da disabilità complesse, ma non soddisfa i criteri individuati per rientrare nelle disabilità gravissime così come da Decreto 26 settembre 2016. Lei è ogni giorno in pericolo di vita e questo rischio aumenta in estate quando fa molto caldo: non esiste un protocollo di riferimento per gestire questo tipo di problema che per lei può essere letale visto che non trattiene i liquidi. Non abbiamo nessun supporto per le spese legate all’utilizzo dell’aria condizionata, per lei di vitale importanza. L’assistenza ha un peso sia fisico che mentale, ma anche economico e dopo così tanti anni ci trova stanchi, a volte anche stanchi di combattere per quelli che dovrebbero essere nostri diritti.
Non capisco come mai una patologia come la sua non sia considerata gravissima ed ho sempre più paura di non essere all’altezza per gestirla al meglio e forse la pandemia ha contribuito ad aumentare questa paura. Vorrei solo poter continuare a garantire a mia figlia le cure necessarie a non spegnere mai quel sorriso che ogni giorno mi dà la forza per andare avanti.

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