Mesi di lavoro, quando non sono anni, centinaia di pagine da spulciare alla ricerca di collegamenti, nomi, indirizzi, dettagli sfuggiti agli investigatori che, nei momenti più caldi e con i mezzi che non sono mai stati adeguati, sono rimasti tracce non sviluppate per mera mancanza di tempo e forze. Oppure semplicemente la voglia di chi “sa” di aprirsi con un giornalista invece di presentarsi in Procura. Questo è solo un accenno del macroscopico lavoro che sta dietro ad un’inchiesta, un lavoro giornalistico di grande importanza, non alla portata di tutti anche per la mancanza di fondi adeguati, non solo di volontà e capacità, che sicuramente ha connotato la redazione di “Report”, il programma Rai di Sigfrido Ranucci, come tutti gli altri suoi lavori. In molti hanno percepito la perquisizione alla redazione e all’inviato che ha realizzato magistralmente il servizio sulla Strage di Capaci un “attacco alla libertà di stampa”, l’espressione di una “dittatura mediatica” che si esprime quando si toccano determinati tasti. Se sia così o meno, non è dato a noi saperlo e tanto meno dirlo, perché per fare certe affermazioni, ricordiamocelo, servono le prove, sempre. Quello che in realtà è stato quel decreto emesso dalla DDA di Caltanisetta, è stato un “attacco” alle fonti, che per noi giornalisti sono sacre ed inviolabili. Chi si “vende” una fonte, fosse anche per evitarsi un procedimento interno o giudiziario, non è degno di chiamarsi giornalista.
Grazie alla risonanza mediatica evidentemente meritata a Ranucci e Report, la Procura ha dovuto fare marcia indietro, probabilmente dopo aver compreso l’essenza di ciò che a chi è del mestiere è lampante, meno a chi legge o guarda, ma non per colpa sua, ovvero l’inviolabilità delle fonti. Al programma andava chiesto di collaborare, e come tutti i giornalisti di inchiesta, quelli di Report sono ben felici di poter dare una mano a fare luce su uno dei capitoli più bui della storia italiana. Lo hanno chiaramente ribadito.
La magistratura deve avere rispetto per il lavoro giornalistico, la mia storia
Non succede così spesso di finire in situazioni difficili e spiacevoli come queste, ma a volte accade, anche a chi è meno sotto i riflettori. A me è capitato, qualche anno fa, e solo oggi ho deciso di raccontarlo, perché mi sento più strutturata, come persona e professionista, perché non accada più. Ho subito un sopruso, un ricatto sotteso a una posizione di potere, anche se sulla carta, per legge, ciò che quel magistrato ha fatto è legale, seppure non dovrebbe esserlo, non in questi termini, e a tutti i giornalisti andrebbe ben rappresentato, in uno dei duecento corsi che siamo obbligati a fare ogni anno.
Ricevetti quella telefonata, da una persona cara, all’improvviso. Il sospetto è che avesse assistito ad un reato grave (non vi specificherò quale), e che questo non fosse stato segnalato dalle persone che lavoravano con lei ai piani superiori, non facendo partire evidentemente gli accertamenti del caso. Preoccupata anche per la sua posizione, chiesi consiglio ad una delle mie “fonti”, la quale giustamente mi suggerì di far fare a questa persona (o di farla fare ai suoi superiori) una segnalazione o una denuncia. Fu così che la mia fonte, probabilmente parlando durante un normale colloquio di lavoro, fidandosi di un magistrato, gli spiegò che forse a breve sarebbe arrivata questa famosa segnalazione. Una di quelle situazioni molto delicate, dove il senso di Giustizia si mescola ai rapporti professionali e personali, creando un possibile corto circuito, che poi di fatto si è realizzato.
Qualche giorno dopo, impegnata in un reportage per un grosso processo, incrociai quel magistrato nei corridoi del Tribunale, il quale mi chiese, con un bel sorriso, se potevamo parlare. Evidentemente io non sapevo che a lui fosse arrivata voce di quella famosa segnalazione. Entrata nel suo ufficio, di fatto è scattato un agguato. Mi disse di sedermi, chiamò un ufficiale di Polizia Giudiziaria, e mi disse che avremmo dovuto verbalizzare tutto quello che sapevo riguardo la vicenda che era arrivata al suo orecchio. Mi rifiutai, appellandomi al segreto professionale sulle fonti, e il “caro” magistrato mi mise davanti ad una scelta: o parlare in veste di confidente personale di chi a me aveva segnalato il possibile reato, a quel punto quella persona non avrebbe rischiato accuse per aver violato il suo segreto professionale, oppure appellarmi al silenzio in qualità di giornalista, quindi preservare me e il mio ma “se poi io dovessi scoprire la sua fonte, e sono sicuro di riuscirci, le garantisco che sarà oggetto di violazione di segreto professionale e passibile di licenziamento”. Non dimenticherò mai quelle parole, quello sguardo sprezzante, la rabbia che mi ribolliva nelle vene e probabilmente, la mancanza di fermezza e lucidità che avrei avuto se non si fosse trattato di una persona non vicina a me. Ovviamente scelsi di parlare, per tutelare la sua posizione. Sono stata anche costretta a non rivelare nulla successivamente, perché il rischio sarebbe stato per entrambe di finire tutti denunciati per aver violato il segreto su una possibile indagine. Immaginate che peso sia stato, enorme.
Il reato non c’era stato, o meglio, non fu dimostrabile e la vicenda finì archiviata.
Resto fermamente convinta che ogni possibile reato vada segnalato, denunciato, e che non si possa pensare di girarsi dall’altra parte per evitare di essere coinvolti, altrimenti poi non ci deve lamentare che la Giustizia non funzioni, ma questo magistrato ha violato il famoso patto sacrosanto che esiste tra giornalisti e investigatori, tra informazione e magistratura. Tante altre volte, prima e dopo, mi è capitato di fornire informazioni su indagini, anche di alto profilo, per senso di Giustizia, perché credo nel mio lavoro, e perché quello che per un giornalista è una pista, per diventare oggetto di processo deve essere validato dall’autorità giudiziaria. Sono fiera di collaborare da anni con tanti pm capaci, volenterosi, rispettosi. Non è evidentemente stato il caso di questo magistrato, la cui porta per me rimane assolutamente trasparente quando mi ricapita di passare da quei corridoi, perché un pm che agisce in questo modo non ha a cuore la Giustizia, ma vuole solo manifestare al prossimo il suo potere, che andrebbe in questo caso ridimensionato.
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