Storia di una giovane prigioniera, la libertà e il ricordo.

Era il 21 settembre del 2018 quando corsi all’aeroporto di Malpensa, per il rientro in Italia di Menoona. Una storia finita dimenticata tra le pagine della cronaca, ma che per me ha rappresentato una battaglia personale e una vittoria, per lei e per tutte le donne costrette a vivere una vita che non volevano. Studiava in Brianza, fino a qualche mese prima quando, dopo essersi innamorata, la sua famiglia le disse che avrebbe dovuto sposare un uomo scelto dai genitori. Lei si rifiutò e con la scusa di un viaggio in patria, fu lasciata in Pakistan nel 2017, mentre i suoi genitori e il fratello tornarono a casa. L’allarme lo lanciò la sua scuola, a cui Menoona non fece ritorno, ma riuscì ad inviare una disperata email prima che le togliessero il telefonino. Riuscii, grazie ad alcune sue amiche, lavorando giorno e notte sui social, tra i siti pakistani, per individuare paesini e strade, a risalire al suo numero di telefono pakistano e la chiamai. Parlammo per pochi brevi minuti, più volte in due giorni, non so che cosa raccontò alla famiglia per giustificare queste chiamate. Senza passaporto non poteva rientrare.

Così contattai vari parlamentari, sollecitando la necessità di un aiuto e perché la Farnesina si mobilitasse. Finalmente arrivò la risposta e grazie alla collaborazione con il Ministero degli Esteri, che inviò la Polizia pakistana a casa sua, Menoona tornò a casa. Non dimenticherò mai l’ultima chiamata: “tieniti pronta, vengono a prenderti”.

Quando arrivò in aeroporto, fu scortata dalla Polizia di Stato all’interno dei loro uffici, ma nessuno, parenti ed amici, andò a prenderla. Lei fece chiamare me, che nel frattempo ero andata a Roma ospite da Magalli, per un servizio della splendida Mary Segneri e rientrai di corsa. Insieme a una collega Ansa andai a recuperarla in aeroporto e insieme la accompagnammo a casa, dopo aver chiesto e ottenuto una ‘scorta’ di carabinieri, proprio da chi l’aveva imprigionata in Pakistan. Parlammo con i suoi genitori, con suo fratello, i quali davanti a noi dissero che non era vero niente, che se voleva studiare avrebbe potuto farlo, ma non stare con quell’uomo che aveva scelto perché secondo loro era un poco di buono. Menoona chiese di andare via, ma a quel punto, per lo Stato, non era entrata in nessun programma di protezione. Fui io, grazie ad una rete di donne splendide, tra cui Cinzia Di Pilla di Centro Antiviolenza Eva a trovarle una collocazione temporanea. Ricordo il suo sguardo perso, i silenzi e la paura, così forti che sia io che la collega deputata ai video di fatto non avemmo il coraggio di chiederle né dichiarazioni né video (il che ci costò una bella ramanzina). Pochi giorni dopo Menoona chiese però di tornare a casa, dalla sua famiglia. Non saprò mai se per sua volontà o per paura. Oggi non so come sta, che vita conduce, non la ho più sentita. Spero stia bene. Ho voluto raccontare questa storia, per intero, per ricordare a me stessa la potenza della volontà e della determinazione femminile, del lavoro di squadra, che allora di certo non emerse, e per far sapere a chi legge quante belle cose accadono nel silenzio.

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