Suicida all’Università, quel dolore causato dalle aspettative

I cancelli dell’Università in lontananza, il battito accelerato ma non a causa del passo spedito, quel vuoto allo stomaco che preme, annienta, toglie le forze e la voce, e che sarà fautore di quello che viene percepito come l’ennesimo fallimento: un voto non all’altezza delle aspettative. Il dramma interiore che ha spinto Alessia (nome di fantasia) a togliersi la vita a 19 anni, nel bagno della sua università, lo IULM di Milano, spiegando il suo gesto con il dolore per il “fallimento della sua vita”, è qualcosa che accomuna tanti giovani, di ieri e di oggi. Quando si arriva a quel punto, dove intorno è tutto nero, dove la vita diventa una costante fatica nella quale si sopravvive vivendo ogni istante come una prova insormontabile, togliersi la vita viene percepito come una liberazione. Chi ci è passato lo sa, anche se all’esterno è difficile da comprendere, quella appare come l’unica strada per trovare un po’ di pace, e questo deve far capire quanto grande sia il malessere di chi sceglie di porre fine alla propria esistenza. Cosa la giovane Alessia avesse nel suo cuore, lo sapeva solamente lei, anche perché spesso questo tipo di dolori vengono mascherati a dovere, in una sorta di commedia della normalità, dove si tenta disperatamente di recitare una vita “normale”, perché là fuori è quella di tanti altri, e noi siamo chiamati a percorrere quella stessa strada, e ci sentiamo diversi se non ci riusciamo. Ci sentiamo sbagliati.

Questo ennesimo tragico epilogo deve farci riflettere come società, come famiglie e come genitori. Le aspettative… “Cosa vuoi fare da grande?”, una domanda che ci viene posta fin dalla tenera età, e saremmo ipocriti a fingere che quando sentiamo un bambino dire “l’astronauta” o “la pittrice”, immaginiamo sia dovuto all’ingenuità della fanciullezza, ma comunque pensiamo a bambini che “sognano in grande”, e questo va bene vero? “L’inventore” o “la dottoressa”, e la reazione è “che idee chiare, così piccolo o piccola, sicuramente farà grandi cose”. “La parrucchiera” o “il meccanico”, ed ecco che viene fuori quel sorriso di circostanza, e i discorsi virano sul percorso che dovranno fare quei bambini, “prima l’università e poi vedremo…”, il commento di tanti genitori, e quelle risate sommesse che vogliono dire “cambierà idea, figurati”. Eh già, perché “diventare qualcuno”, ancora oggi, significa rientrare in determinate categorie, soddisfare determinati requisiti, e per carità, in buona fede, con l’amore che ogni genitore (o quasi) ha verso i propri figli, e si immagina per loro una vita prospera, appagante, da ogni punto di vista. Ma chi lo dice che una officina meccanica non possa rendere, economicamente ed emotivamente, qualcuno felice? Quello di cui non ci preoccupiamo abbastanza però, sono i modelli che presentiamo, quando si tratta di genitori realizzati, spesso visti come modelli inavvicinabili e con i quali costringiamo troppe volte i nostri figli a confrontarsi, dimenticandoci che loro non sono noi, oppure viceversa, caricandoli del peso dei sacrifici fatti “per loro”, della certezza che loro saranno migliori di noi solo perché avranno un lavoro giudicato migliore, più prestigioso. E’ così che si cresce schiacciati da aspettative soffocanti, che ti segano le gambe in partenza, perché parti dal presupposto che non ce la farai mai… Se i voti non sono “all’altezza”, se lo stage non è “all’altezza”, se lo stipendio non è all’altezza, ti senti un fallito. Ci dimentichiamo che oltre alle aspettative che famiglie e società proiettano sui giovani, là fuori c’è un mondo del lavoro che non fornisce le possibilità di realizzarsi neppure a chi soddisfa tutti quei requisiti. C’è la realtà che ti prende a schiaffi, e che spesso ti travolge con opportunità che deludono anche le tue aspettative, per anni animate dal “se ti impegni a fondo, se studi, se meriti, troverai la tua strada, altrimenti finirai a…”. A volte “finisci a…” comunque. Come società civile dobbiamo fare in modo che tutti abbiano le stesse possibilità di accedere a un determinato percorso di studi o professionale, e siamo ancora ben lontani, ma dobbiamo anche trasmettere il paradigma per il quale non tutti sono portati per un determinato percorso e devono imparare ad accettarlo senza vergogna, perché possono certamente eccellere altrove.

Ogni anima è diversa, ogni vita ha il suo percorso, ognuno di noi è diverso dall’altro, per attitudine, carattere, talenti e sì, anche aspirazioni. Studiare è fondamentale, la cultura lo è sempre, perché fornisce strumenti per la vita, ma questo non può e non deve diventare il movente di intere vite votate a riuscire per forza, a non sbagliare mai, a non saper accettare un fallimento. Siamo tutti “fallati”, in un modo o nell’altro. Tutti sbagliamo, nel nostro percorso di crescita, ed è giusto che sia così. La storia tragica di Alessia, che avrà le sue motivazioni, magari che nulla hanno a che fare con la sua famiglia o lo stesso percorso di studi, ci deve imporre una riflessione più ampia, ci deve spingere a comprendere che ogni individuo deve poter trovare la sua strada, con i suoi tempi, e pazienza se non arriverà là dove un genitore si aspetta, dove gli altri pensano si debba arrivare per essere “qualcuno”. L’unica persona che dobbiamo rendere orgogliosa, nella vita, siamo noi. È questo il messaggio che dobbiamo trasmettere ai giovani, sono loro a dover scegliere la loro felicità.

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