Elezioni: utopie, ipocrisie, lettera schiaffo di chi la conosce bene…

Ricevo e pubblico questa analisi delle elezioni che reputo lucida, diretta, da lasciare senza parole, inviata da qualcuno che evidentemente in politica ha lavorato e che, per ovvii motivi, non citerò. Buona lettura. Valentina Rigano

In auto in città. Italia. Tarda mattinata. Pochi giorni dopo le elezioni.

Indipendentemente dalle proprie convinzioni politiche l’esito delle consultazioni elettorali di domenica scorsa può portare, per chi prova a ragionare con imparzialità ed oggettività, e perché no un po’ di coraggio, a domandarsi il perché di questi risultati.

Ritengo personalmente, ed è una opinione personale che non cerca necessariamente approvazione e condivisione, che una delle ragioni fondamentali stia nel profondo ed abissale distacco che segna i cittadini dalla classe dirigente, di ogni ordine, partito e movimento. Tale considerazione, che può apparire ovvia di primo “acchito”, non è riferita a quello che può essere considerato ovvio e legato al fatto che i governanti guadagnano 15\20 mila euro al mese e la povera gente no. Non è una questione economica o di classe, è proprio una questione di contenuti e situazioni concrete.

Proviamo ad immaginare di far salire un parlamentare qualsiasi, un ministro, un sindaco, un consigliere regionale a bordo della nostra auto e farlo sedere al nostro fianco mentre guidiamo e facciamo un giro per una mezza giornata in una delle nostre bellissime città italiane. Anche qui senza alcuna distinzione tra nord e sud, ovest ed est, belle o brutte.

Iniziamo chiedendo quale sarebbe il motivo, perché siamo effettivamente un po’ stanchi, per cui dobbiamo pagare la benzina una cifra spropositata rispetto a quanto pagano i nostri amici europei; anche i più vicini eh, francesi e sloveni in primis. Silenzio. Non c’è, ci sono accise della guerra coloniale in Libia che ancora non si riescono a cancellare.

Andiamo oltre. La necessaria transazione ecologica. Bene, bello e giusto. Nel nostro breve tragitto incrociamo decine di veicoli statali, di enti, uffici ed aziende locali o parastatali. Sono tutti indistintamente euro 1, 2 o al massimo tre. Autobus a gasolio, auto della polizia di almeno 10 anni, messi comunali con la punto degli anni ’90. Ma ancora, ambulanze che sembrano alimentate a carbone, carri attrezzi con almeno 20 anni di “vita”. Dagli uffici comunali sbuffa copioso il fumo della vecchia caldaia a gasolio. L’agenzia delle entrate è ben illuminata anche in pieno giorno. La caserma dei Carabinieri sembra una gigantesca centralina a vista, fili volanti dappertutto e motori di condizionatori senza fine. Dall’ospedale si colgono nette le luci accese di ogni singola stanza.  

Mah si dai, avranno tutti i pannelli sol…. Non scherziamo, migliaia di euro di bollette tra energia, gas, acqua e quant’altro. Tutti edifici con tetti e coperture disponibili in cui da almeno un decennio avremmo dovuto installare pannelli solari e derivati.

Vabbè, proseguiamo. Ci fermiamo a bere un caffè al volo in un bar. Niente di che, mezza periferia. Tre ragazzi, poco più che trent’anni, siedono al tavolino. Cellulare, cappuccino e gazzetta dello sport. “Ma non siete a lavoro ragazzi?”, sorge spontanea la domanda. Lavoro? “Noi abbiamo il reddito (di cittadinanza)”, quale lavoro poi, vorrebbe aggiungere. “La sera qualche ora in nero in pizzeria e arriviamo a 2 mila al mese. Mica male”. Mica male no.

Risaliamo in auto. Passiamo vicino alla stazione ferroviaria. Una signora sui 65 trascina con un po’ di fatica un grosso trolley. Per entrare in Stazione deve attraversare un giardinetto con delle panchine. Ci sono una ventina di ragazzi africani. Bottiglie di birre a terra. Uno grida, uno balla con la musica ad alto volume. La signora tentenna, attraversa la strada e fa il giro più lungo. Dall’altra parte del marciapiede due zingare la guardano curiose. Italiane eh, italianissime. Un ragazzo biondo, italianissimo anche lui, seduto sullo scooter aspetta chiaramente qualche “cliente”. In fondo, poco prima dell’ingresso, i due militari dell’esercito osservano la piazza, da lontano, con il mitra in mano e la mimetica. Sembrano spauriti, un po’ disillusi forse. Cosa dovrebbero fare in fondo? Identificare gli stranieri con decine di decreti di espulsione mai eseguiti? Fermare le scippatrici pluripregiudicate con condanne sospese che non hanno mai fatto un giorno di galera o forse bloccare il pusher che tanto dopo due ore torna a spacciare? Niente, capisco in fondo i loro sguardi “disarmati” sopra le loro armi.

Passiamo inevitabilmente dalla periferia. Si vedono le parabole posizionate senza regole sui balconi. Negozi multietnici, decine di persone che stazionano all’esterno. Nessuno lavora. Poche donne in giro. Auto parcheggiate in doppia fila non fanno passare il bus. A bordo anziani e diversi stranieri. Si intravede un po’ di agitazione a bordo, alla fine in due scendono di corsa dal bus e scappano veloci. Un 50enne controllore in carne cerca di afferrarli, nemmeno ci si avvicina. In fondo chi più paga il biglietto sull’autobus domando a voce alta. Così, a vista, nei tre minuti che siamo rimasti fermi in coda all’autobus il concetto di integrazione non solo non si nota ma non sembra neppure mai iniziato. Ma quindi tutti quei discorsi, l’Europa, l’accoglienza, le ONG, i progetti di inclusione sociale? Dove sono i volontari delle navi, i no global, i seguaci dell’ambiente e quelli con le bandiere arcobaleno?

Fandonie. Propaganda.

Torniamo verso il punto di partenza, in fondo il nostro “passeggero” ha visto già abbastanza. Le nostre città, la strada, i quartieri, le Stazioni. Stiamo per arrivare, l’ultimo semaforo, in fondo alla strada si vede già l’auto blu con il lampeggiante e l’autista che lo aspetta. Squilla il cellulare mentre la luce diventa rossa, ci fermiamo. Un ragazzino, forse 12 anni, si propone di lavare il vetro. È scalzo e visibilmente malnutrito. La conversazione al telefono al mio fianco è invece ben “nutrita”.

“Mah si tranquillo assumiamolo noi, in fondo è suo nipote e ci è sempre stato vicino. Non ti ricordi quando ci ha finanziato il convegno sulle popolazioni indigene del Mali?”.

Allontana il ragazzino con un cenno, in fondo ha ragione, il vetro è già pulito. Due prostitute poco lontane cercano lo sguardo del mio passeggero che hanno visto ben vestito con giacca e cravatta. Forse paga bene avranno pensato. Lui, il passeggero, manco se ne accorge che sono due ragazzine, 20 anni al massimo.

“La scrivo io la prefazione sulla resistenza partigiana in Molise”, continua la conversazione telefonica. Arriviamo all’auto blu. “Grazie, bel giro. A presto. E mi raccomando, venga a trovarci domenica alla nostra festa, si mangia il risotto e si parla di politica”.

No, in fondo non credo ci sia bisogno di fare una analisi politica troppo approfondita sull’esito del voto.

Credo solo che si debba tornare con i piedi per terra, per strada. Ad occuparsi della gente che lavora, che si alza alle sei la mattina, che paga le tasse ed il biglietto dell’autobus. Consentire a nostra madre di andare a prendere il treno tranquilla ed a nostro fratello di non trovare il finestrino rotto dell’auto parcheggiata dopo il lavoro. Aiutare i deboli, chi non ce la fa davvero, senza mance elettorali e tangenti di voto, mandando “a lavorare” chi lo può e lo deve fare. Occuparci di chi non ha niente, con progetti seri ed accoglienza reale, senza finti perbenismi da salotti degli ultimi piani e manifestazioni di piazza del sabato mattina.

Il viaggio è finito. La resistenza, in Molise, anche, almeno da 70 anni. Reduci veri e partigiani combattenti non ce ne sono più. Grazie a loro siamo ripartiti, nel secolo scorso.

È il momento, forse, di ripartire oggi, guardano al futuro con più concretezza e meno utopia.

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